Sinistra democratica per il Socialismo Europeo è un movimento politico organizzato che si richiama agli ideali del socialismo e alle tradizioni culturali della sinistra che hanno contribuito alla fondazione della Repubblica democratica. L'obiettivo di avviare un ampio processo unitario, che in prospettiva coinvolga tutta la sinistra italiana nella costruzione di una nuova più grande forza politica, costituisce la ragion d'essere del movimento.

sabato 15 settembre 2007

lunedì 10 settembre 2007

Prof. Moschiano:una classe politica viva e costante per il decollo del Vallo


L’inchiesta sul Vallo di Lauro,condotta sotto l’aspetto etnico politico e di sviluppo,che con recente denoiminazione viene definito “viaggio nelle terre di mezzo”cioè stretta ,la nostra tra due confini territoriali,per certi valori etnicamente diversi,induce anche me ad intervenire essendomi sempre interessato alla storia locale.Del territorio di cui è opportuno ripercorrere le vicende passate attinenti ai vari riordinamenti territoriali.”Così il professore Pasquale Moschiano motiva il suo intervento,non semplicemente politico,pur essendo lui capogruppo di opposizione a Lauro,ma di sostanziale profilo storico,la vera passione del prof,che ad ottant’anni non rinuncia alla partecipazione ad ogni inziativa culturale,ultima in ordine di tempo quella svoltasi in Piazza Municipio a Quindici per premiare i giovani laureati e diplomati.25 pubblicazioni su fatti storici locali,una attualmente in cantiere dal nome “Pietra su Pietra”,Moschiano ha guidato l’assessorato alla Cultura in quella che è stato definito il “Rinascimento Lauretano”,da sempre di idee liberali,il prof offre in questo intervento un viaggio nella storia di questa parte d’Irpinia,senza però rinunciare anche alle proposte e alle osservazioni sul dibattito avviato dal “Corriere”.
“In tempo dell’espansione sannita in cui quei popoli si impadronirono di gran parte della Campania,il Vallo fu soggetto agli Irpini,che seguì le sorti delle conquiste romane.Dipendente in epoca longobarda,prima dal Ducato Di Benevento,poi nel secolo IX dal Principato di Salerno;con la venuta dei Normanni,già feudo di Lauro,appartenne alla Contea di Caserta,governata dai Sanseverino;indi fu parte del Principato di Terra di Lavoro e Abruzzo e quando Terra di Lavoro divenne provincia il Vallo ne fece parte.Nel 1793,alla proposta del principe di Lauro di dividere il Stato di Lauro in “DUE GOVERNI”,la Real Camera di Santa Chiara espresse parere contrario;per la conformazione geografica ,infatti,il circondario forma “un tutt’uno e indivisibile “tanto da creare grandi difficoltà nel procedere alla divisione del demanio per la formazione dei catasti.Nel decennio francese 1806-1815,per effetto delle leggi importate dai nuovi governanti ,avvenne la divisione delle province in Distretti e Circondari,così la Provincia di Terra di Lavoro con legge del 1811 risultava divisa in Distretti e tra questi quello di Nola da cui dipese il Circondario di Lauro con dipendenza giudiziaria di S.Maria di Capua,Appare dunque evidente lo svolgersi per secoli della vita degli abitanti del Vallo nell’ambito giurisdizionale di Terra di Lavoro e del Distretto di Nola,per cui le nostre popolazioni,racchiuse in un unica omogeneità geografica,si saranno conformate anche ad affinità culturali,religiose,storiche,etniche di quella terra.”Importante il passaggio post-unitario,con documenti dell’allora sindaco di Lauro :“Sopraggiunto il 1861 ,anno che segnò l’Unità d’Italia,veniva con i nuovi eventi politici acquisiti allo Stato Unitario la città di Benevento già delegazione pontificia,cioè possedimento della Chiesa ed assurta ora a Provincia del Regno ,fu necessario apportare modifiche territoriali per cui con Decreto Regio dello stesso anno i circondari del Vallo di Lauro e di Baiano,scissi dalla Provincia di Terra di Lavoro venivano aggregati alla Provincia di Avellino.Non essendo stato gradito il provvedimento dalle popolazioni del Vallo fu esso avversato dalle amministrazioni locali che espressero pubblico dissenso attraverso convocazioni consiliari.Così il sindaco di Lauro,Francesco Venezia,riunito il Consiglio il settembre 1861 poneva all’odg il detto argomento ,e “dopo maturo esame”veniva rilevato:Che il Mandamento di Lauro,circondato da Monti per tre parti,possiede l’unico sbocco ad occidente che lo collega con Terra di Lavoro e che l’unica via sicura è quella che mena a Nola,raccordandosi con altre reti viarie,ferroviarie e Via Consolari agevoli a raggiungere il capoluogo e il Tribunale di S.Maria di Capua.Che le vie per Avellino non danno sicurezza per pericolo di aggressioni(era il tempo dei briganti)inoltre incomode per distanza e malridotte”E qui ci verrebbe da dire che il Documento,riletto a quasi 150 anni di distanza sembra ancora molto attuale!.Ma il documento prodotto dal Consiglio continuava “Che la soluzione si ritiene negativa ai fini socio culturali delle nostre popolazioni che da epoca immemorabile mantenevano costanti i loro contatti commerciali,giudiziari e di ogni altro ordine con la provincia di Terra di Lavoro.”Il professore continua ripercorrendo le tante speranze nate dopo il 1898 quando “si parlò nientemeno della creazione di un tratto ferroviario,con percorso Napoli-Somma –Lauro-Forino-Avellino. I nostri nonni poveretti!ci cedettero,anche perché la notizia passò attraverso il Consiglio di Lauro.Macchè!Venne il 1906 e ancora si ridestò la speranza:Sfortunati i nostri nonni,anche questa volta avevano perso il treno!ma in compenso si buscarono l’eruzione del Vesuvio.E’ però evidente che dopo i contatti tenuti per oltre140 anni con Avellino,ci si è in qualche modo anche legati,specie in quest’ultimo cinquantennio quando Avellino diventa roccaforte democristiana con vari senatori e deputati di schietta etnia irpina;Allora un via vai continuo degli amministratori valligiani sperazosi di ottenere concessioni per il Vallo ,come l’attraversamento ,per il nostro territorio,dell’autostrada ,tanto invocato negli anni sessanta. Ma ancora un’amara delusione per il Vallo quando,dopo tante promesse,non escluse quelle personali dell’allora Ministro dei Ll.PP. On.Zaccagnini,cui il locale Comitato arrivò,l’autostrada fu dirottata per la zona di Baiano già servita da Ferrovia e strada nazionale.”In Conclusione-scrive il prof-al Vallo manca una valida forza politica che si faccia sentire e rispettare .Spesso si difetta di unità e intesa tra le istituzioni sul territorio ove necessita invece un serio dialogo tra le parti,che si apre soltanto se ci cade addosso qualche sciagura comune come una frana o un terremoto;poi si dimentica tutto.Ma ciò che veramente ci manca è la Voce del Vallo in Parlamento:ce ne sono tanti di parlamentari irpini e anche di primissimo piano,ma da Avellino in su.E’ questa una preclusione per il nostro territorio ,nonh per incapacità dei suoi uomini,ma proprio perché,data la posizione geografica,il Vallo non vive la vita politica del capoluogo,del cuore dell’Irpinia essendone la sua terra una frangia estrema e distaccata,sicchè il cittadino del Vallo è quasi sconosciuto in Irpinia nel cui capoluogo si reca per faccende burocratiche,per carceri e tribunali,insomma per necessità .Sfogliando però la nostra satoria troviamo anche il Vallo ha dato due parlamentari ,i fratelli Ferdinando ed Edoardo Pandola di Lauro,eletti il primo nel 1867,il secondo nel 1870 quando il Vallo era stato già aggregato alla Provincia di Avellino,ma che elettoralmente dipendeva ancora dal Collegio di Nola.E forse eletti deputati proprio per questa circostanza.Il cittadino del Vallo infatti è ambientato più nel nolano che non in Irpinia.Questa è la storia.Ed è pur vero che i parlamentari irpini ci hanno dato anche una mano all’occorrenza,ma a noi serve una forza viva e costante che senta tanti bisogni come propri della sua terra e che faccia davvero decollare il territorio.Diversamente la sorte del Vallo non cambierà.L’appartenenza poi ad una provincia che ad un’altra,avrebbe anche un certo valore,ma penso che non convenga rimestare tutto proprioo ora,così gravati da ben altri problemi di cui non scrollarci,come l’insidiosa camorra che tanto audacemente spiega i suoi tentacoli anche verso le Istituzioni.A ciò siano particolarmente attenti i Comuni,i cui appalti sono tanto appetibili alla criminalità organizzata.”
dal Corriere dell'Irpinia

sabato 8 settembre 2007

Fabio Mussi al seminario di Orvieto 1 settembre 2007


Questa è una introduzione che spero serva a dare un contributo ad aprire una discussione autentica, a porre questioni che devono essere approfondite per poter assumere, poi, decisioni conseguenti. Penso che dobbiamo fare una accurata valutazione della situazione, occorre riprendere senza indugi l’iniziativa. Il 15 settembre è già convocato il Comitato promotore e lì dovremo approvare un documento cui la discussione di oggi e domani sono sicuro potrà offrire delle utili coordinate.
Ricordo che il nostro è un Movimento. Annunciato al Congresso dei Ds, ha avuto il suo battesimo a Roma il 5 maggio. Non sono ancora passati 4 mesi e, è inutile dirlo, ci si muove in una situazione complicata, che richiede una saldezza nelle nostre convinzioni ed anche una fiducia nelle ragioni del nostro movimento. Io ero e sono convinto, molto convinto, che noi, avendo il senso del limite, abbiamo però una responsabilità grande per il futuro del centro sinistra e della sinistra italiana. La situazione è complicata, la responsabilità è grande tuttavia voglio anche dire che se le condizioni fortunate sono rare, ritengo sia una fortuna, certamente determinata dalle scelte compiute, non trovarsi ora ingaggiati nella costruzione del partito democratico. Intendiamoci, era prevedibile (e i fatti dimostrano che avevamo ragione), che lo scioglimento dei Ds e l’avvio del percorso del Pd avrebbero messo, come hanno messo, in una tempesta l’intero centro sinistra. Ed è prevedibile che ci sarà molto disordine per un pezzo. Chi desidera cose ordinate temo sia capitato in un momento sbagliato. Le cose si presentano in una forma tumultuosa e naturalmente il tema grande che abbiamo di fronte di cui ci parlano questi eventi è la profondissima crisi culturale e politica della sinistra italiana. Il fatto con cui dobbiamo misurarci è essenzialmente questo.
Ho diviso questo invito alla discussione in due capitoli
1) realtà del mondo e produzione di ideologie
2) rischi e opportunità della situazione politica Italia

1) Realtà del mondo e produzione di ideologie
Ricorderete il famoso passo di Marx: “Il mondo si presenta come una sterminata raccolta di merci”. Era la metà dell’Ottocento, avrebbe dovuto osservare questo mondo, quello contemporaneo, per vedere un’effettiva “sterminata raccolta di merci”. Questa frase, questo concetto – però – va integrato. Nei tempi attuali il mondo si presenta come “una sterminata produzione di ideologia” – nel senso classico della falsa coscienza.
La crisi di filosofie politiche compatte è stata, come è noto, interpretata come fine della ideologia. In anni recenti è stata pomposamente annunciata l’alba di un mondo a-ideologico, cioè ricondotto alla realtà. Si tratta di un clamoroso falso. Un autore che mi è molto caro, il mio Adorno, scrivendo negli Stati Uniti di America come membro della comunità di immigrati tedeschi, nell’immediato dopoguerra, proprio in un mondo che veniva annunciato come il regno del pragmatismo e del trionfo della realtà, vide l’esplosione di quelle che chiamò “ideologie di seconda mano”. Cioè l’incessante proliferazione di bricolage mentali, frutto di una costante combinazione di elementi conformistici -ho visto stamane che sul Corriere della Sera Asor Rosa ha profetizzato l’avvento del Partito unico del conformismo-, parareligiosi, settari, egoistici, psicotici. Anche di breve durata, ma efficaci strumenti di potere pronti a disfarsi per dar vita a nuove combinazioni. Si pensi ad esempio all’accurata costruzione ideologica che ha lanciato e sostenuto il gruppo tribale attualmente insediato alla Casa Bianca, che è stato preceduto dall’annuncio, che sembra scaturito dall’Apocalisse di Giovanni, del “New American Century”. Si tratta esattamente di un bricolage ideologico: un po’ di fondamentalismo religioso, un po’ di filosofia dello spirito di matrice europea novecentesca, e poi mercato mercato mercato. Una costruzione ora già in disfacimento, ma il punto è che dobbiamo essere in guardia, perché false percezioni della realtà rischiano di dominare la prassi politica.
Voglio allora provare ad indicare quelli che a mio giudizio debbono essere i punti cardinali di un programma fondamentale, con riferimento a valori e ad un concreto programma di azioni politiche e di governo: pace, ambiente, lavoro, libertà.
Io definirei questi quattro punti cardinali come gli elementi di riferimento culturale, valoriale e politico essenziali.
Pace
Le notizie più importanti dell’estate, che rischiano di essere le notizie più importanti del secolo, sono, a mio giudizio, queste: ad agosto gli Usa hanno annunciato che quest’anno il bilancio della difesa sale a 460 miliardi di dollari (e le spese di un quadriennio di guerra in Afghanistan e in Iraq sono altri 450 miliardi di dollari). Sempre questa estate gli Stati Uniti hanno finanziato con 20 miliardi di dollari il riarmo dei paesi del Golfo Persico, e ancora questa estate e sempre gli Usa hanno confermato l’intenzione di insediare postazioni missilistiche per lo scudo spaziale in Polonia e in Cechia. Ad agosto si sono svolte manovre militari congiunte Russia Cina (la Cina dichiara 20 miliardi di dollari di spesa per gli armamenti, la stima è che sia già molto oltre i 100 miliardi di dollari). E ancora, sono stati riattivati i voli dei bombardieri strategici in Russia. Il punto è che dopo la caduta del Muro e dell’Urss si è assistito ad un roll-back dei trattati internazionali, a scelte sugli armamenti strategici che hanno portato basi Nato e Usa lungo tutte le frontiere russe, si è innescata una fase riarmistica senza precedenti. L’accelerazione è impressionante, e l’Europa sta diventando una Santa Barbara. È come se avessimo sotto gli occhi la preparazione della Terza Guerra Mondiale.
L’economia mondiale cresce al 4/5 per cento, gran parte del surplus dell’economia mondiale va in armamenti. Nessuno batte ciglio. La questione non è entrata sotto il cono di luce della politica.
Si fa tanto parlare di “riformismo”. La prima domanda che vorrei porre è dove sono gli Olaf Palme, i Willy Brandt, i Bruno Kreisky, gli Enrico Berlinguer, cioè i leader politici che in un’altra fase riarmistica, che al confronto di questa era roba da ragazzi, mossero le montagne. La situazione è gravissima, anche a voler trascurare il fatto che ovviamente si sono aggravati i punti di crisi. Iraq, la grande macelleria. Ho ancora nelle orecchie il discorso sarcastico di D’Alema al Congresso dei Ds, quando diceva che noi parlavamo del Socialismo europeo mentre i socialisti europei avevano voluto la guerra in Iraq, mentre i democratici Usa erano contrari. Falso. I democratici americani, tranne una deputatessa nera, hanno votato compatti a favore. Poi si stanno svolgendo le presidenziali americane del partito fratello, e Hillary ha annunciato la permanenza in Iraq “fino alla vittoria finale”. Obama, che era la novità super democrat, ha affacciato l’ipotesi di poter bombardare direttamente sul territorio del Pakistan. L’Iraq continua ad essere l’epicentro della crisi tra Occidente e resto del Mondo. Abbiamo fatto bene noi e tutti i gruppi della sinistra, ovviamente, a non far saltare il Governo sulla questione Afkanistan, ma è del tutto evidente che è maturo il tempo di una chiara ridiscussione della missione, perché l’occupazione di quel Paese è diventata sempre più un presidio militare ad una sempre più fiorente produzione di oppio.
In Medio Oriente c’è solo qualche segno, ma sono voci, la situazione è molto drammatica, e si sono ventilate solo alcune ipotesi che Israele ritorni nei confini del ’67. Tuttavia spiragli veri per un accordo che preveda “due popoli in due Stati” ancora non se ne vedono, ed è bastata una frase di Prodi abbastanza ovvia su Hamas perché succedesse una ira di Dio.
Se guardiamo più politicamente che cosa vuol dire questa fase riarmistica, cosa vuol dire questo diffondersi dello spirito della guerra, appare evidente che questo si combina con la crisi della costruzione europea. Abbiamo sempre messo in valore il progetto della costruzione politica dell’Europa. Ricordo che un capitolo della mozione al Congresso di Pesaro si chiamava: “L’Europa, una buona carta nelle mani dell’umanità”. L’accordo minimo sul trattato costituzionale non ha riaperto una vera stagione nuova, la stessa evoluzione della questione della Turchia sembra porre uno stop ai progetti di ulteriore allargamento. Il punto è che crescono le linee di conflitto Usa-Cina, Usa-Russia, Usa-mondo arabo e l’Europa si barcamena lungo queste linee di conflitto e appare sempre più schiacciata e rischia di regredire ad una “espressione geografica” (come già un tempo i cancellieri prussiani definivano l’Italia). Il punto è che un mondo armato fino ai denti e regolato dal capitale finanziario non sta in piedi. Naturalmente l’epicentro del problema sono gli Stati Uniti di America e la sua politica.
Ora siamo ancora nello sciame di scosse finanziarie provocate dallo scoppio della bolla dei mutui americani, e non solo non è ancora finita, ma non è ancora del tutto chiaro quale sarà lo sbocco. Bush ieri ha annunciato “l‘intervento del governo”: se ci pensate è davvero paradossale che dal cuore del regno del mercato sovrano venga annunciato un intervento regolatore del governo. La questione posta da questa vicenda è l’enorme debito pubblico e privato americano, e cioè che se “l’American way of life” (slogan di Bush padre) “non è negoziabile”, allora il mondo non è governabile. Questa cosa è evidente, ma se qualcuno pone questa evidenza sorge subito l’accusa di “antiamericanismo” a riprova che viviamo in un mondo largamente immaginario e dominato da sottoprodotti ideologici. Io ne ho parlato anche con Veltroni e Prodi, ponendo la questione di che cosa fa l’Italia di fronte a questo. Mi sono sentito rispondere che effettivamente non avevamo tutti i torti.
La mia proposta, allora, è che partendo da questa priorità programmatica, promuoviamo una grande iniziativa, un nuovo grande movimento non genericamente per la pace, ma che abbia come obiettivo quello della promozione della azione politica, a partire dal punto sul governo italiano, su scala europea e internazionale, per riaprire il tema di una inversione della tendenza, di una riduzione degli armamenti. E di una ripresa dei tavoli di trattativa per una riduzione multilaterale e bilanciata. Altrimenti, ovviamente, quel che resta è chiacchiera e propaganda: se una quota tanto grande di risorse viene destinata agli armamenti, è da farisei poi parlare di Africa, di Aids, di acqua, di povertà, di digital divide, di riconversione ecologica dell’economia, etc..
Ambiente
Mi pare che si sia improvvisamente diffusa la consapevolezza che siamo entrati nel secolo delle scelte: ora o mai più. Siamo di fronte ad un doppio processo, quello dell’esaurimento dei combustibili fossili, (anche qui ricordo che nella mozione che una parte di noi presentò al Congresso di Pesaro c’era un capitolo intitolato “Fine dell’era del petrolio”, che affrontava tale questione, con riferimento, cosa che allora sembrò stravagante, al “picco di Hubbert” che è diventato, invece, uno dei temi fondamentali della discussione di politica economica internazionale), e quello del consumo esagerato di materia ed energia che il pianeta non è in grado di sostenere. L’impatto delle attività umane sui cambiamenti climatici, impatto lungamente negato dai principali governi del pianeta, è ormai misurato e riconosciuto. Non voglio approfondire, ma mi interessa qui un collegamento mentale. Le disuguaglianze causate dalla globalizzazione hanno già indotto imponenti processi di migrazione verso paesi dove è più abbondante il cibo e il lavoro. La desertificazione, anche di una parte di aree attualmente temperate provocherà l’emergere di una nuova massa di profughi ambientali. Le previsioni Onu parlano nel breve e medio termine di un onda di 60 milioni di profughi ambientali verso i paesi che offrono loro una opportunità di sopravvivenza, ma che sono gli stessi paesi che per il loro modello di sviluppo sono anche la maggior causa della desertificazione.
I fatti di cronaca di questi giorni sui lavavetri mi hanno fatto venire in mente un parallelo storico. Alla fine del ’700 in Inghilterra la Camera dei Lords approvò la famosa Legge delle enclosures, delle “chiusure”, prima di allora una parte grande dei terreni erano commons, beni comuni dove lavoravano i contadini. Le terre vennero chiuse e questo trasformò alcune centinaia di migliaia di contadini in operai delle nascenti industrie e altre centinaia di migliaia in vagabondi. Non c’erano semafori all’epoca, tuttavia i crocicchi delle strade si riempirono di una umanità di straccioni, un po’ più sporchi e un po’ più maleducati dei lords . Ovviamente i lords fecero leggi contro i vagabondi, che stabilivano che al primo arresto del vagabondo c’era la galera, al secondo l’impiccagione sul posto. Ora, disuguaglianze economiche e cambiamenti climatici è come se fossero enclosures: chiudono letteralmente parti del pianeta. Restano due strade. Arginare con tutti i mezzi i vagabondi, ed ecco diffondersi le semi-ideologie della sicurezza. “Volete combattere il crimine?” Si, siamo molto favorevoli a combattere il crimine, siamo favorevoli a combattere il racket, siamo per la difesa della legge, ma questa storia dei lavavetri è una vergogna. È una regressione morale e intellettuale. La seconda opzione è darsi una strategia che contrasti le diseguaglianze e difenda l’ambiente, cioè mantenere il pianeta aperto. Questa seconda, ovviamente, comporta una riforma del capitalismo di dimensioni mai viste, più grande di quella –per altro grandissima – che ha portato con il “compromesso socialdemocratico” allo Stato sociale.
Propongo che si promuova una iniziativa della portata e dell’ambizione di quella promossa all’Eliseo nel ‘67 da Enrico Berlinguer, passata alle storie come Assemblea sull’austerità, perché parlare di ambiente significa parlare della dimensione economica e sociale, non solo di quella, pur essenziale, della innovazione tecnologica. Tra l’altro è in corso uno strano fenomeno, governanti di spicco che hanno avuto un immenso potere - l’elenco è più lungo ma cito solo Gore, Clinton e Blair -, che diventano combattenti della causa ambientalista dopo la fine del mandato. Bisognerebbe cominciare ad individuare qualche governante che vede il mondo come è, e non attraverso le lenti distorcenti delle semi-ideologie, durante il mandato e non dopo.
La questione dell’ambiente si lega strettamente a quella del lavoro.
Lavoro
Voglio citare un testo e un documento per dimostrare come le semi-ideologie operano un formidabile oscuramento della realtà. Qualcuno forse avrà avuto tra le mani un libricino uscito di recente, scritto da un liberale conservatore, Geminello Alvi, “Una Repubblica fondata sulle rendite”, leggo l’attacco: “Nel 2003 ai lavoratori toccava il 48,9 % del reddito, nel 1972 era il 59,2%. La quota dei redditi da lavoro dipendente è regredita, ora è circa la stessa del 1951, quella dell’Italia prima del boom. Il che vuol dire, esagerando in furia di dettaglio, non troppo distante da quel 46,6 che era la povera quota del 1881. So che al nostro lettore già verrebbe da eccepire: “Bella forza, ma di quanto nel 2004 le partite Iva e i lavoratori indipendenti sono più numerosi di 35 anni fa? Lecita obiezione, che ha tuttavia pronta replica statistica: nel 1971 c’erano 2,5 occupati dipendenti per indipendente, nel 2004 sono 3. Il che significa che i dipendenti sono addirittura cresciuti in proporzione rispetto ad allora”.
Questa è l’Italia, ovviamente, come sappiamo, il fenomeno è globale: non è vero che siamo nel mondo delle classi medie, noi siamo nel mondo che ha visto, proprio con la globalizzazione, il boom del lavoro salariato e dipendente. Conclude Geminello Alvi: “Si può dire che la quota di lavoratori dipendenti è regredita alla cifra di una Italia della memoria”. Che fine ha fatto questa massa di reddito sottratto al lavoro? Alvi, come tanto gli economisti liberali quanto Marx, sa che esiste una correlazione tra salario, profitto e reddito. E infatti il nostro autore documenta che le rendite crescono rapidissimamente fino al ’96, poi il vantaggio tocca ai profitti.
Conferme? È uscito ai primi di agosto l’Annuario di Mediobanca sulle prime 50 società quotate, pari al 90% della capitalizzazione della borsa. Un solo giornale, nelle pagine interne, l’ha commentato: il Corriere della Sera in un articolo di Massimo Mucchetti dal titolo “Ricavi, profitti, finanza. E il pensiero unico emargina il lavoro”. Nel rapporto si denuncia che la quota destinata al lavoro in cinque anni cala, in relazione al valore aggiunto, dal 40,8% al 30,8%, e grazie ai tassi di interesse bassi – effetto euro - che hanno reso leggero il servizio del debito, l’avanzo va ai profitti lordi: dal 52,7% al 63,6% del valore aggiunto. Potrebbe essere un prezzo salato pagato dal lavoro con cui, tuttavia, si è finanziato, chessò, la composizione organica del capitale, l’internazionalizzazione, oppure ricerca e sviluppo. Ahimè no. La quota del valore aggiunto che va alle voci definite secondo gli standard convenzionali internazionali R&D (ricerca e sviluppo) è inchiodata in Italia al 2,1%, mentre la media europea è del 5,5%, Germania 7,5%, Usa 8,7%, Giappone 9,6%. Il difetto di innovazione e tecnologia è la ragione principe della bassa produttività del lavoro. Che fine ha fatto questo tesoro? Accumulo di patrimoni privati e “consumo signorile”, problema che avevano visto Smith e Ricardo già in qualche paio di secoli fa. La nostra borghesia - detto in sintesi - si è sputtanata un immenso tesoro accumulato dal lavoro. Questo fatto trova assoluta conferma nelle statistiche sulla distribuzione della ricchezza e sui consumi di lusso, da anni in costante boom. Ecco le semi-ideologie all’opera. La frase: “bisogna combattere la povertà e non la ricchezza”, che forse nella Svezia di Olaf Palme aveva un qualche senso, in questa Italia, che i dati descrivono così impietosamente, è del tutto priva di significato. Questo miracolo rovesciato, da dove viene? È avvenuto soprattutto grazie al lavoro precario e al lavoro nero. In questo campo si maneggiano stime. Sul lavoro nero la stima è tra i 4 e i 5 milioni di addetti per una quota stimata dell’economia illegale del 25/30%, in espansione. Per il lavoro precario, nel reticolo di forme nel quale si è costituito, le stime vanno dai 3 milioni e 800 mila del “Il Sole 24 Ore” ai 4 – 5 milioni e mezzo della Cgil e di Luciano Gallino. Sostenere che le leggi che hanno precarizzato il lavoro hanno contribuito all’aumento dei posti di lavoro è una solenne castroneria, figlia di quelle mezze ideologie che hanno spinto anche una parte della sinistra a vedere il mondo rovesciato. Il caso italiano, naturalmente, è figlio di due genitori: la lotta di classe condotta dai ricchi contro i poveri, e il dominio globale del capitale finanziario che ha seguito la regola “comprare il lavoro a prezzi orientali e vendere merci a prezzi occidentali”. La doppia svalorizzazione del patrimonio ambientale dell’umanità e del lavoro umano ha prodotto effetti economici e sociali che sono sotto gli occhi di tutti e anche effetti culturali regressivi. In questo vuoto, in questo processo di svalorizzazione, emerge l’affannosa ricerca, soprattutto nei ceti popolari di tutto il mondo, di una qualche identità.
Lavoro e ambiente sono parti dello stesso discorso.
Libertà
Infine, corollario di questo quadrilatero di grandi riferimenti valoriali, ideali e politici, c’è la questione della libertà.
Forse su questa questione c’è un graduale parziale avanzamento in America Latina (ma sempre molto precario: ho visto che Chavez ha proibito la minigonna…). La Cina dimostra che non c’è un legame necessitato tra sviluppo economico e libertà. La caduta del totalitarismo sovietico ha lasciato il campo, dalla Russia alle repubbliche asiatiche, a nuove forme di autoritarismo. Molti Paesi liberatisi dal colonialismo nella seconda metà del ‘900 hanno viste bruciate le chances di rivoluzione democratica e laica. In Occidente è declinata la politica partecipata, è cresciuto il peso del denaro e del controllo sull’informazione. Un mix di populismo e di personalizzazione mi sembra il tratto della politica dei nostri tempi. Poi ci sono gli sviluppi anche tecnici: le reti, il web, hanno creato nuovi e inediti problemi di libertà sia individuali che sociali. Esiste, grande, il problema di un nuovo fondamento del principio democratico e di libertà, che in Italia ci costringe a combattere persino su frontiere ignote altrove: l’aberrazione della legge 40 non è modificabile, e la libertà di ricerca è limitata – ad esempio – in un campo molto promettente come quello delle staminali; la legge sul testamento biologico è ferma; i Dico, anche nella forma proposta da Salvi (Cus), sono fermi e dobbiamo persino difendere la 194 da una offensiva a tutto campo promossa, trovando sponde anche dentro la maggioranza, da Avvenire e dalle gerarchie vaticane.
Pace, ambiente, lavoro, libertà. Noi abbiamo il nostro riferimento nel Socialismo europeo e naturalmente non intendiamo rinunciarci, però bisogna sempre guardare in faccia la realtà. Il socialismo europeo è in affanno: non si tratta solo del dato politico, pur rilevante, rispetto a quando partiti socialisti governavano 12 paesi dell’Unione su 15, mentre oggi il peso si è molto ridotto. C’è una crisi che si sviluppa sul terreno della rappresentanza del lavoro e nell’internazionalismo, che sono i tratti storico costitutivi del movimento socialista, cioè sul terreno di una proposta universalistica ai popoli del mondo. Dichiarare, come sostanzialmente ha fatto il congresso dei Ds, che bisogna andare “oltre il socialismo” significa sostanzialmente transitare più al centro e più a destra, cosa che sta avvenendo. La nostra appartenenza a quel campo, la nostra appartenenza al gruppo del Pse è fuori discussione, così come credo sia fuori discussione che, in un processo non so quanto lungo, tuttavia una sinistra nuova in Italia abbia da essere socialista e non comunista. Gli eventi, però, ci dicono, il mondo guardato non nello specchio delle semi-ideologie ci dice che è necessario un rinnovamento del socialismo, anche attraverso il contatto con le storie e le culture critiche che si sono formate vicino e intorno al partito del socialismo europeo e dell’Internazionale socialista. D’altra parte, l’idea di una evoluzione verso l’internazionale democratico-socialista che aleggia da tanto tempo –prima D’Alema l’ha a lungo coltivata, poi l’ha ripresa Veltroni – sembra una chimera irrealizzabile. Sulla strada su cui si è messo il Pd sembra più probabile un riassorbimento nel campo liberal-democratico, e magari anche un arretramento verso quel campo di altre forze spinte dagli eventi italiani che oggi fanno parte del gruppo del socialismo europeo. La questione di una sinistra e di un socialismo nuovo è aperta in Europa e nel mondo.
2) Rischi e opportunità della situazione politica italiana
Vorrei leggere una nota dai “Quaderni del Carcere”, una nota che ha dato il titolo poi ad uno dei più importanti dei Quaderni. Si chiama “Passato e presente”. Scrive Gramsci: “Confrontate le osservazioni sparse su quel carattere del popolo italiano che si può chiamare ‘apoliticismo’. Questo carattere,naturalmente, è della masse popolari, cioè della classi subalterne. Negli strati superiori e dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire ‘corporativo’, economico, di categoria, e che del resto è stato registrato nella nomenclatura politica italiana col termine di ‘consorteria’, una variazione italiana della ‘cricca’ francese e della camarilla spagnola, che indicano qualcosa di diverso, di particolaristico si, ma nel senso personale o di gruppo strettamente politico (settario legato all’attività politica di gruppi militari o di cortigiani), mentre in Italia più legato ad interessi economici (specialmente agrari e regionali). Una varietà di questo ‘apoliticismo’ popolare è il ‘pressappoco’ della fisionomia dei partiti tradizionali, il pressappoco dei programmi e delle ideologie. Perciò anche in Italia c’è stato un ‘settarismo’ particolare, non di tipo giacobino alla francese o alla russa (cioè fanatica intransigenza per principi e generali e quindi il partito politico che diventa il centro di tutti gli interessi della vita individuale); il settarismo negli elementi popolari corrisponde allo spirito della consorteria nelle classi dominanti, non si basa su principi ma su passioni anche basse e ignobili e finisce coll’avvicinarsi al ‘punto di onore’ della malavita e all’omertà della mafia e della camorra”.
Questa era la situazione dell’Italia alle soglie del Fascismo. L’Italia descritta da Gramsci è stata terremotata dalla Resistenza, dalla Costituzione Repubblicana e dalla comparsa di grandi partiti di massa figli dell’antifascismo. Attenzione, perchè esiste esattamente un rapporto tra passato e presente e certi caratteri del passato possono ripresentarsi in abiti moderni. Il morto può tornare ad afferrare il vivo, se ne vedono i segni.
Prendiamo il libro che va ora per la maggiore, “La Casta”. Non è vero che la politica si sia costituita in casta in una società per sua natura aperta. È vero, piuttosto, che la politica ha via via assunto le stesse strutture di casta che sono radicate nella società italiana, si è adattata, rinunciando al punto di vista di quella “riforma morale e intellettuale” che dovrebbe essere il cuore dell’azione e finendo per convivere, senza esagerati turbamenti, non solo con le corporazioni, le consorterie delle classi dominanti, ma financo con questi “aspetti ignobili” che si chiamano – dice Gramsci – mafia, camorra, ‘ndrangheta. È da qui che nasce la questione morale, che non può che essere uno dei cuori battenti del nostro svolgere una funzione. Villone e Salvi hanno per primi scritto un libro importante su un aspetto di questa vicenda, i costi della politica. Io penso che qualità e costi della politica debbano essere, persino con uno spirito neopuritano, al centro della nostra azione già nella discussione sulla Legge Finanziaria. Il 29 andremo a Cosenza a dire lì che cosa è diventata la politica in tante zone del Sud, e sono sicuro che la nostra sala sarà piena, e non avrà, però, le prime 4 file a cui pure Veltroni l’altro giorno ha detto in faccia cose importanti.
L’autunno si presenta turbolento. Siamo tutti consapevoli che questa ultima parte del 2007 sarà politicamente decisiva per almeno tre ragioni.
La prima è la preannunciata offensiva del centro destra, centrata sulle tasse. È vero che lo sciopero fiscale di Bossi, annunciato con fucili immaginari, è finito con lo sciopero del fumo e del lotto, che sarebbero anche due cose sane, cui potremmo aderire. Pensate a come è rapidamente invecchiata questa semi-ideologia, sposata anche dai nostri ex compagni, l’idea del “partito del Nord”... A parte la Lega, è prevedibile che Berlusconi, come per altro ha fatto ieri l’altro, non solo alla fine rigetti l’offerta di dialogo istituzionale, ma conduca una campagna battente evocando esattamente quei caratteri nazionali antichi ricordati nella nota di Gramsci. A questa campagna si è già proposto come una sponda potente, appena incassato il cuneo fiscale, il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. E’ impressionante leggere le lettere in cui il rappresentante massimo dell’impresa italiana parla dello Stato come di un “rapinatore”. E’ la riprova dell’assenza in questo paese di una autentica borghesia nazionale.
Seconda ragione è la legge finanziaria. Il Dpef che il governo ha approvato all’unanimità a luglio non è male, nel senso che ha respinto le pressioni internazionali della visione monetarista che voleva l’abbattimento immediato del debito. Le risoluzioni di Camera e Senato, alle quali hanno contribuito i nostri gruppi parlamentari (e di questo li ringrazio), sono buone. Questa seconda finanziaria del centro sinistra o costituisce un rilancio del governo Prodi, che ha perso in poco più di anno molti consensi, come hanno dimostrato le amministrative, o può essere occasione di inciampo su cui si può aprire una crisi di legislatura. “Tregua fiscale” ha detto Padoa Schioppa. Sul versante della lotta all’evasione si sono conseguiti importanti risultati, su quello fiscale ci sono sul tavolo due punti, un punto è lo scambio alla pari tra incentivi diretti, oggi assai poco controllati, e pressione fiscale sulle imprese. Abrogare gli incentivi diretti e ridurre di pari importo la pressione fiscale può essere una buona idea, se si guarda attentamente la questione delle donne, della ricerca e del sud.
Un secondo punto è la tassazione al 20% sulle rendite (ovviamente per i titoli di Stato si parla di quelli di nuova emissione, a partire da un certo stock). Apriti cielo, quando Grandi ha spiegato alla stampa il contenuto di un disegno di legge presentato dal governo e depositato in Parlamento. La tassazione al 20% è nel programma dell’Unione e nelle risoluzioni sul Dpef. Penso che noi dobbiamo essere quelli che si battono per la difesa del welfare e per un sistema di tassazione non iniquo.
Questione del lavoro. Io penso che questa sia di grandissima portata, e, che se guardiamo al protocollo firmato a luglio, non possiamo che osservare che sono contenuti solo alcuni aspetti del problema. I due punti fondamentali del protocollo sono la previdenza e il mercato del lavoro. Intanto si tratta di individuare una linea. Io mi sono permesso di anticiparla in Consiglio dei Ministri, ma sono sicuro che sarà condivisa: norme sulla previdenza e sul lavoro, non possono andare come norme ordinamentali in finanziaria, devono essere testi di legge che il governo o la maggioranza presentano. Io penso che l’accordo sulle pensioni sia un punto di compromesso accettabile ed è ovvio che tra le cose scritte lì e i testi approvati c’è di mezzo il mare. Ad esempio va definito nel dettaglio il meccanismo attraverso il quale nessuna pensione in futuro può essere inferiore al 60% dell’ultima retribuzione. Il che significa ovviamente tenere fuori una parte dei lavoratori dal sistema contributivo. Per fare un altro esempio, quello dei lavori usuranti, l’idea che si stabiliscano delle titolarità e poi si metta un tetto numerico non sta in piedi. Appare chiaro quindi che esiste un problema di battaglia politica sull’applicazione dell’accordo. E poi sul mercato del lavoro. Ricordo che la precarietà non è tutta colpa della legge Biagi. Sulla precarizzazione ha agito molto di più la 368, cioè la legge Berlusconi che tolse il limite della reiterabilità dei contratti a tempo determinato introdotto dalla Treu. Ma la Biagi è talmente esagerata che quelle due forme, lo staff leasing e lo job on call, le imprese hanno convenuto generalmente di non applicarle. La seconda di queste due forme di lavoro precario è stata abolita, ma la prima no, forse perchè è stata usata, unica impresa in Italia, da una grande cooperativa di servizi di Reggio Emilia. Dobbiamo chiedere che i manifesti ideologici vengano strappati. Non so quanto spazio ci sia per un ripensamento sulla decontribuzione sugli straordinari ma noi dobbiamo tenere il punto, perché quella norma è sbagliata, tanto più visti i tassi di occupazione che abbiamo in Italia. La decontribuzione degli straordinari, che è stata voluta da un asse di ferro tra Cisl e Confindustria, è sbagliata. Bisogna, poi, modificare il punto dell’accordo che riguarda il lavoro a tempo determinato. Il testo prevede che il contratto a tempo non possa essere reiterato dopo tot mesi. Tuttavia se il lavoratore è accompagnato da un sindacalista di fiducia presso l’Ufficio provinciale del lavoro, allora si può fare una eccezione. Immaginiamo, nell’Italia contemporanea, che mercato di sindacalisti si aprirebbe. Credo che dovremmo impegnarci con le forze della sinistra che hanno espresso critiche, in parte coincidenti con le nostre in parte no, per la modifica di parti qualificanti del protocollo.
Quest’anno si misura se il programma dell’Unione è effettivamente cambiato o no perché la finanziaria deve essere figlia del programma dell’Unione e di un punto politico di equilibrio della coalizione. O si rispetta il programma oppure effettivamente il problema di ridefinire in modo limpido il programma e dunque il governo e la sua struttura si pone. Ricordo che all’indomani delle amministrative noi ponemmo un problema per quanto riguarda la numerosità e la struttura del governo.
La terza ed ultima ragione di preoccupazione per l’autunno sono i processi di ristrutturazione del campo politico del centro sinistra. Io penso che quello che abbiamo sotto gli occhi possa suonare come una conferma della scelta fatta al congresso dei Ds. È evidente che l’impegno di Veltroni ha salvato il progetto del Pd da un puro naufragio. In questo momento lo spettacolo mediatico è notevole e si accentuerà fino alle cosiddette primarie del 14 ottobre. Abbiamo sotto gli occhi una contesa fortemente personalizzata, con tratti populistici, con una lotta sanguinosa tra i potentati locali. Si fa molta fatica ad intravedere la formazione di un partito, sembra essenzialmente un aggregato di un grumo di correnti e potentati. Per ora l’effetto è di destabilizzazione del quadro politico. Ammesso che l’offensiva del centro destra non sfondi, ammesso che la finanziaria sia figlia di un accordo che ci consenta dare un colpo d’ala, non sarà tuttavia facile regolare il traffico quando il Pd avrà un leader diverso dal premier che non sarà il leader del partito di maggioranza. Nel frattempo Veltroni sta pubblicando a puntate il suo programma che non è il programma di un segretario di partito, è il programma di un leader di coalizione. La legislatura ha ancora tre anni e mezzo di vita, quel programma vale subito e quindi bisogna cambiare governo, oppure questo è un programma da tenere in caldo per la prossima? Con una coalizione e un governo che dovrebbero rispettare un programma dicendo, ovviamente, che è buono, essendo nel frattempo stato reso pubblico l’altro programma che si ritiene migliore del primo. Situazione bizzarra.
Se poi si va ai fondamenti ideali, valori, collocazione internazionale del Pd allo stato appare un magma indecifrabile. Quello che si vede è un aggregato, collocato al centro assai più di quanto non lo fossero i Ds. La parola “sinistra” è stata lasciata totalmente incustodita (salvo di quando in quando nei discorsi di Rosy Bindi). La cosa più preoccupante, ma non sorprendente, è che dal processo di formazione del Pd emerge o una vocazione neodemocristiana chiara, “alleanze di nuovo conio” (Rutelli), o una pericolosa presunzione di autosufficienza (Veltroni). Forse c’è chi punta sul referendum e sulla legge elettorale che ne consegue. Vorrei mettere in guardia, da una linea del “o la va o la spacca” al referendum. Dubito che questa maggioranza regga già all’indizione del referendum, non solo agli esiti. Ed aggiungo, qualunque sia la scelta, o bozza Chiti, o effetto legge elettorale figlia del referendum, o qualche sistema alla tedesca, darei per certo che voteremo la prossima volta con una legge elettorale con sbarramenti alti. Certo, non possiamo costruire un discorso politico sulla legge elettorale, ma è bene tenere presente che comunque sia è probabile che avremo una qualche legge elettorale con sbarramenti alti.
Per noi il punto strategico deve essere questo: alleanza di centro sinistra, forte componente di sinistra dentro l’alleanza. Un’dea di rinnovamento del Paese, una rappresentazione della Italia tale da costituire un blocco progressista, lo si può avere solo in questo quadro politico, il resto sarebbe una regressione verso tratti nazionali precedenti. Il Pd, a differenza di quel che pensa Bertinotti, non è più “sinistra politica”, e non ci tiene neanche a rappresentarsi come tale.
Ovviamente non esiste ipotesi di governo se non in un rapporto tra sinistra politica e costituendo Partito democratico. Dobbiamo essere critici e realisti. Se questa è l’idea, il nostro movimento deve riprendere l’iniziativa e agire per unire e rinnovare la sinistra. Si tratta di opzioni politiche ma anche di visione di sistema. C’è una voglia matta di sbarcare la sinistra dalla coalizione, in alcuni più chiara, in altri meno dichiarata. Però il punto che devono sapere Rutelli e Veltroni è che l’analisi della realtà e dei rapporti di forza deve essere oggettiva per tutti, non ci si può immaginare un mondo che non c’è. Se si sbarca la sinistra, non basta l’Udc, e temo che non basti oggi ma neanche domani. Bisogna andare più in là, molto più in là per fare maggioranza. Io penso che comunque vada il Pd non basterà da solo. Il problema è che alla fine il Pd sarà il dominus incontrastato, se troverà alla sua sinistra un arcipelago di forze frammentate e litigiose e quindi ininfluenti. Troverà la frammentazione o un altro soggetto pesante? Stiamo parlando di una area che oggi vale tra il 10 e il 15%. Essenziale, quindi, non solo sotto il profilo sociale e della rappresentanza, ma essenziale anche sotto il profilo politico, per una coalizione che voglia essere né centrista né trasformista. Ci vorrebbe un partito, un partito che magari sta alla sinistra del socialismo europeo ma dentro quel quadro lì. È del tutto evidente che ce lo possiamo porre come traguardo, oggi non ci sono condizioni mature. Bisogna andare passo passo. Ho letto il documento firmato da Spini, Angius e Boselli. Facendo un ragionamento di sistema, e tenendo presenti i nostri orientamenti programmatico-ideali, non vedo l’utilità di chiuderci con lo Sdi nel piccolo recinto della “costituente socialista” alla quale, per ora, ha aderito solo il gruppo di De Michelis. Lo Sdi è il gruppo che, dopo lo scioglimento del Psi, ha mantenuto il marchio Pse e, dopo aver tentato molte variegate alleanze, ha fatto la scelta giusta, e da noi apprezzata, di non aderire al Pd. Ci sono tra noi sintonie sulla laicità (anche se non mi spingerei fino a pormi l’obiettivo dell’abrogazione del Concordato). E tuttavia un socialismo che non assuma con una nuova forte visione critica, le questioni del lavoro, della pace e dell’ambiente, può avere un passato ma non un futuro. Io credo che sarebbe importante la partecipazione, con i suoi caratteri, dello Sdi ad un progetto unitario a sinistra, al quale l’abbiamo più volte invitato. Un progetto al quale non si può rinunciare.
Penso che l’obiettivo che dobbiamo darci è la formazione di un campo di forze pesanti, che immagino possa in partenza chiamarsi Sinistra Italiana. La mia proposta è quella dell’intervento al Congresso Ds, e cioè che svolgendosi la Costituente del Pd si apra una costituente della Sinistra Italiana. Una sinistra plurale e federata. Questo richiede da parte nostra iniziativa unitaria, autonomia, lotta politica. Questo processo non può essere l’assorbimento in qualche casa altrui. Abbiamo espresso autonomia di giudizio sul protocollo, abbiamo espresso autonomia sulla manifestazione del 9 giugno, autonomia sull’annunciata manifestazione del 20 ottobre. Riguardo alla quale esiste intanto una questione di metodo.
Se si vogliono fare cose unitarie si discutono prima, si convengono i promotori, le piattaforme, le forme, non è che si fa partire il treno e poi si chiede ad altri di salire. Patti chiari amicizia lunga. Il metodo è inaccettabile. Poi, ritengo, che nel modo con cui quella manifestazione è stata lanciata c’è una non sufficiente analisi del quadro generale.
Questa manifestazione, come ha scritto Barenghi sulla Stampa, arriva a “babbo morto”: 7 giorni dopo le primarie del Pd, a referendum sindacale svolto, con la finanziaria fatta. Infine, in quella piattaforma c’è davvero di tutto, le pensioni e il precariato, gli anziani, il no tav, il no Mose, il no Dal Mulin, l’Afganistan etc.. Lanciata così rischia di essere la marcia degli incazzati. Io sono favorevole alle manifestazioni, ma bisogna sapere esattamente a che cosa servono, qual è la piattaforma, qual’è l’obiettivo politico, altrimenti diventano rappresentazioni estetiche. I promotori dichiarano fortissimamente che non hanno intenzione di chiedere la crisi di governo, però gli eventi possono avere loro dinamiche proprie. Sarebbe un errore imperdonabile offrire al centro e alla destra la testa di una sinistra che senza dichiararlo ha dato essa una spallata al governo. Sarebbe un suicidio politico. Se si deve aprire una crisi di governo, penso sarebbe un errore aprirla da sinistra. Attenzione ad innescare dei processi dei quali poi non si è più padroni. Naturalmente maggioranza e governo hanno bisogno di una scossa. Penso che da questo seminario debba venire una richiesta di incontro con i promotori del 20 per verificarne forme e piattaforma. Io penso che un assemblea con una chiara piattaforma sulle questioni del lavoro e dell’ambiente sarebbe molto più utile. Vediamo di arrivare ad una determinazione comune che non butti tutto all’aria e che eviti i rischi di un corteo in quelle forme e in quel modo.
Penso che comunque bisogna aprire una vera e propria fase costituente di una sinistra plurale e federata .
Concludo con alcune proposte. Dobbiamo proporre la costituzione di un tavolo comune dei 4 ministri che hanno firmato la lettera sul welfare a Prodi e dei rispettivi gruppi parlamentari sulla finanziaria. Significa provare a mettere le basi di un lavoro per il resto della legislatura. Se questa cosa funziona si può immaginare a breve un coordinamento dei gruppi parlamentari, e infine una vera e propria road map politico programmatica da oggi alle elezioni amministrative di primavera, a cui arrivare con una maturazione del rapporto unitario capace, ovunque possibile e utile, la presentazione di liste unitarie.
Noi siamo un movimento, siamo partiti in quarta poi c’è stato un affaticamento, dovuto alle difficoltà di ottenere, in questa situazione politica, risultati visibili a breve. Dobbiamo riprendere il lavoro della nostra autonoma organizzazione, c’è la proposta di un questionario di massa, dobbiamo riprendere il lavoro parlamentare e l’iniziativa verso le altre forze.
È un progetto molto impegnativo, però quello che ho esposto mi sembra l’unico per cui valga la pena spendersi

sabato 1 settembre 2007

Dove sono finite le Dafnee?


Quest'anno le attività culturali del nostro paese sono state pari a zero. Dove sono finiti gli spettacoli al castello, dove le programmazioni estive, e i decennali appuntamenti con i pittori naifs?